di Maria Antonietta Rossi

Nascere al centro della pianura padana vuol dire fare i conti con  il verde e i campi che la luce dell’acqua delle rogge, come una matita 8B, sottolinea con linee dritte. Vivere i momenti delicati dell’infanzia bevendo tutto questo con lo sguardo aperto dei bambini, ha tessuto l’abito sensibilissimo poi indossato per sempre. Nel piccolo paese di Casalbuttano, che ancora adesso mi sembra più bello degli altri intorno, non è mai successo niente di importante; così fermo, cristallizzato, mi fa  pensare ad un oggetto antico e prezioso di cui si  è  persa l’utilità. Un luogo dentro una bolla piena di luce, una luce che ancora non smette d’incantarmi: è il mio senso d’appartenenza. Così speciale esiste solo lì. E’ fissa nei pensieri e ricama il tessuto sottile dell’abito. E’ bianca, ricca di  sfumature: ferma, carica di ronzii e venata di giallo discreto in estate, sfiorata di grigio perlaceo e scandita dal silenzio nelle nebbie in inverno .  

Tutto intorno i campi quadrati o rettangolari. Alberi verdissimi o maestosamente vestiti dai pizzi della brina segnano i loro confini, sono i guardiani di spazi ben definiti, sono le sentinelle di superfici simili  alle geometrie di quadri astratti:  le vastità di frumento colorano le pezzature di un bel giallo  mutevole, altre invece sono vergate dalle linee grandiose dei fusti del granoturco verde-blu o dall’ondeggiare dell’erba medica, radiosa nel pallore del verde tagliato col grigio.

E l’acqua? Sempre. Lenta, veloce, mai ferma comunque. E luminosa. Il riverbero dei fiumi o dei canali, il riflesso prezioso nelle gocce di nebbia  o nella condensa della brina sono i suoi volti magici.

A lungo questo è stato il tempo del respiro, della lettura facile del mondo.

Da grande? Quella che fa i quadri.

Fuori dalla bolla infantile una vita qua e là con radici fresche, docili da estirpare.

A Milano per frequentare  il liceo artistico, chiedendomi “cosa ” e  “come” fare e  realizzando piccole opere con qualche briciolo di poesia e la costante paura di sbagliare.  Un po’di tempo a Ivrea dove i piedi non si sono mai posati, affannata a volare sopra quelle montagne incombenti e a difendermi dal gelo della gente... e poi ancora Milano che per tanto tempo ho considerato con indifferenza fino a che ho sentito quanto questa città mi volesse bene, dove i pensieri, la quotidianità, la vita tutta insieme  afferravano disordinatamente ogni particella di passaggio: lo studio all’Università (grandi amori la Storia dell’Arte e la Letteratura!), le scelte lentissime o acchiappate di corsa, le idee concretizzate in opere che sempre sorridevano, ma troppo timidamente, l’amore dato e ricevuto, tanto!

La fragranza di voler fare arte….e l’Accademia di Brera, mi ha fornito le armi.

Dunque da ora  un lavoro più concreto, forse troppo sofferto (lunga è stata la strada che per carattere doveva passare attraverso grovigli di anima…), ma filtrato dal colore, vera forza dei lavori astratti di questi anni: macchie materiche e poi stesure piatte monocrome con la linea che delinea i piani, segni come “scrittura” e ancora i ritratti “impressionisti” che scaturiscono con l’immediatezza dei disegni infantili. 

Poi il bisogno di appropriarsi del “mestiere” del pittore. E allora copie di opere di grandi artisti, da Francesco del Cossa a Friedrich, Bocklin, Renoir… Un passaggio, una vera e propria porta per andare oltre tenendo  conto delle emozioni, della sensibilità paralizzante e di quella noiosa “sofferenza”,  metabolizzati dagli strumenti affilati del FARE.

I luoghi stanno al tempo, come il ricordo sta all’immaginazione. Vivere in determinati luoghi è la stessa cosa che vivere nella lucidità dei sogni, nella velatura dei ricordi, nel nutrimento dei libri, nei racconti di chi  parla con calore, nelle immagini suscitate. I luoghi fisici o i  paesaggi mentali hanno aggiunto la leggerezza necessaria, l’accuratezza delle finiture, l’abbinamento degli accessori all’abito ora diventato pelleLa porta della “camera dei fazzoletti” si apre sul giardino. Davanti c’è una fontana rivestita di piastrelline e tante rose curatissime.

La stanza si è svuotata ad un tratto ed è rimasta senza perché. Da laboratorio per la confezione di fazzoletti di tessuti raffinati e orlati a mano a un vuoto inutile. Piano piano entro in punta di piedi, il tavolo si riempie di fogli disegnati o scritti, alle pareti le tele ricevono le forme e i colori. Lo spazio della stanza ha accolto il muoversi di lavori tridimensionali, quel suo essere “dentro” la casa e contemporaneamente “fuori” in giardino, ha dato vita alle  Finestre da cui si può guardare se si vuole da ” fuori” o da “dentro”.  E poi a quella pittura-disegnata dei ritratti su sfondo scuro con le tele preparate in modo sperimentale e spesso lacerate o punteggiate dall’alchimia sbagliata;  le figure quasi “evocate”,  emergono attraverso linee colorate, come intraviste in uno specchio impolverato.

Il silenzio è sempre stato padrone in questa stanza che sembra ammalata , mi ha permesso di stare lì il tempo necessario per capire e, piano piano, si è richiusa per custodire le cose che non si ha il coraggio di buttare, piena di nulla: un cuore stanco.

Come un segno l’occasione di una casa, “Il Perticato” in mezzo ai campi, accanto al luogo dell’infanzia. Lì, con tutti gli elementi stretti nel pugno, la casa è diventata il primo vero “studio”, l’antro alchemico da raggiungere in tutti i momenti possibili per attraversare pensieri, farli crescere come vita, vedere le idee che s’impongono come fede o “sciocchezze” che mostrano l’altra faccia della medaglia permettendo così  uno  sguardo diverso su cose senza importanza.  Tutto un bagaglio che chiede di essere di-sfatto? fatto? ri-fatto?   In questo posto “fuori dal mondo”  i sensi si sdoppiano: si sentono le forme, si tocca il silenzio  si vede il profumo dell’erba e della terra…un luogo d’incontro di  “buone energie” che   vivono, oltre che nel lavoro di pittura,  negli scritti sparpagliati delle “Quasi poesie”, nel lungo racconto “Il Precario”, nei racconti “Oggetti smarriti”, “La coppa” e altri che vengono alla mente così, con la loro forza primitiva e lasciati  come traccia da continuare. E poi le  riflessioni, le bolle , i sussurri fermati  nei diari  che  tengono per mano la Pittura.

I progetti si definiscono, si intrecciano, nascono come libere associazioni. Un Mito Qualsiasi con le due teste mascherate che dormono nelle teche di plexiglas è il capostipite di lavori successivi e si è “presentato” nel bel mezzo del progetto per le Mani. E’ cresciuto dando vita ad una vera e propria “stirpe” con somiglianze e unicità proprie nelle Pittosculture, figure femminili che con tutta la loro intensa corporeità  rimandano  a miti potenti.

Come le libellule che si spostano a scatti sulla superficie dell’acqua, la vita si sposta come non si penserebbe mai, tutto ciò che si è costruito, a volte conquistato, succede che perda la sua identità. Le radici che hanno tenuto saldo il terreno finora, lo lasciano per ancorarsi di nuovo da altre  parti. Crema che da anni è il luogo del mio lavoro di docente, diventa la  nuova casa, una casa dal cuore generoso. E qui ho capito qualcosa che mi serviva e che andava formulato: tutto quello che faccio, dal quadro alla decorazione, dall’uso della tridimensionalità alla scrittura, io la definisco PITTURA.

Nuovi pensieri,  a volte proprio   nuovi bisogni si presentano a tratti, isolati come sempre ormai  nel bel mezzo di un’altra idea che si sta costruendo. I “temi” sfociano in argomenti trasversali: le Trasparenze, le Marieantoinette, gli Acrobangeli o i Libri d’artista e i Divertissement, dove la scrittura afferma la sua identità di parola dipinta.

Le mie compagne di viaggio? La Pittura come alleata, la Memoria come pretesto per ogni fare.

Pittura guidata  dall’audacia della  timidezza.

Un abbraccio a ciò che conosco attraverso altri lidi e poi dimenticato, non per far posto ad altro, ma per accogliere nuovi sguardi. Ciò che si vede è indistruttibile: gli elementi sconosciuti, spesso invisibili, giocano  a nascondersi per emergere per uno sguardo fuori programma o per un  “sentire” senza importanza alcuna, ma che portano i sensi a mille, che fanno ondeggiare fra il “saputo” sedimentato e l’emergere della forma. Sapere? Preferisco dimenticare nel ricordo e respirare di nuovo.

E la Memoria è quella cosa lì, non sempre legata al ricordo,  si accende quando semplici fili di sensibilità s’intrecciano: un frammento, un suono, lo scricchiolio di un pensiero e tutto ritorna a braccia aperte.

L’impatto con quell’invisibile intreccio dona il senso e il gusto  dell’appartenenza a un “mondo altro”: restituire quello che appartiene,  cresciuto con Energia e meravigliosamente metabolizzato dalla Pittura.

Per ora mi fermo qui e posso guardare dietro (indietro?) Un viaggio compiuto, un passare nelle montagne e fra i vetri e trovare qualcosa da condividere con me stessa. Anche gli altri sempre più spesso “vedono”. Ho imparato a permetterglielo. E’ stata necessaria un’infinità di tempo-granelli di finissima polvere passata tra i filtri di pensieri armati. Mi allontano volando nel buio o scendendo in anfratti colorati, ma con lo sguardo fisso in quello squarcio che dà luce al sentire.